Archivi tag: joe zawinul

Roccella Jazz Festival 2013 (1) – Pippo Matino “Joe Zawinul tribute”

Caratterizzato da una struttura itinerante in otto diverse sedi, il festival jazz di Roccella Jonica 2013 ha aperto i battenti il 14 agosto. L’offerta di concerti è talmente vasta da risultare ipertrofica, già dalla prima serata si impone una scelta fra due eventi in contemporanea, a Reggio C. e Locri. Qui, nella suggestiva cornice dell’area archeologica, Pippo Matino ha presentato il suo “Joe Zawinul tribute“. Le eccellenti doti tecniche del bassista sono ben note, e anche in quest’occasione sono ben evidenziate. Specialmente nella prima parte il set è ad alta intensità, e mette in luce la buona vena creativa della macchina ritmica, alimentata dagli ospiti Roger Biwandu (batteria) e dalle percussioni di Giovanni Imparato, che estemporaneamente si esibisce anche con vocalizi di ispirazione africana.

Più lineari le prestazioni di Antonio de Luise, a cui è affidato il compito di emulare i timbri e il fraseggio alle tastiere del grande musicista viennese, e del sassofonista Giulio Martino, che nel contesto non ha avuto molti spazi per mettere in luce le sue doti di solido strumentista. Completato dalla presenza saltuaria della vocalist Silvia Barba, i cui interventi hanno contribuito a dilatare e variegare le atmosfere, il gruppo ha offerto un’esibizione di buon impatto.

Per la cronaca, la seconda parte della serata era affidata a Sarah Jane Morris, accompagnata da un chitarrista. Ennesimo esempio di scelta quantomeno discutibile in un jazz festival.

Wayne Shorter 4 – Il periodo Weather Report (1971 – 1986)

Sullo slancio dell’ormai conclusa esperienza con Miles Davis, il cui termine per Shorter coincide con alcune esibizioni live di poco successive alla pubblicazione di Bitches Brew (1970), Wayne organizza un connubio artistico con il tastierista austriaco Joe Zawinul, rincontrato dopo dieci anni durante la registrazione di In A Silent Way (1969). Nell’avventura è coinvolto anche Miroslav Vitous, giovane ma già personalissimo contrabbassista.

Il progetto, a nome Weather Report, prende il via nel 1971 con l’uscita del primo, omonimo lavoro, nel quale i leader sono affiancati da Al Mouzon alla batteria e Airto Moreira alle percussioni. La lezione delle directions in music davisiane è evidente, ma viene puntualizzata con personalità, equilibrando alta energia ed elettricità con misurato lirismo. Nel conclusivo Eurydice, a propria firma, Shorter coniuga, in maniera esemplare e swingante, tradizione e nuove sonorità.

A seguire, nel 1972, I Sing The Body Electric, con Eric Gravatt a sostituire Mouzon e Dom Um Romao a rimpiazzare Airto. Il disco è un’anomala gemma, frutto di una peculiare costruzione: prima facciata del vinile registrata in studio, lato B formato da estratti di un concerto dal vivo a Tokyo (che sarà poi pubblicato integralmente come Live in Tokyo). Indimenticabile l’iniziale e struggente Unknown Soldier, ispirato da una terribile esperienza vissuta da Zawinul durante il secondo conflitto; la complessa struttura del brano è caratterizzata dal magistrale ed evocativo uso del sintetizzatore ARP 2600. La zampata di Shorter è The Moors, con la partecipazione del chitarrista Ralph Towner.

Ancora eccellenti, benché oltremodo diversi, Sweetnighter (1973) e Mysterious traveller (1974), con modifiche e ampliamenti d’organico; l’irripetibile magia del precedente lavoro si trasforma in ostinata ricerca ritmica e predilezione per brevi ed ipnotici riff. Il secondo dei dischi citati segna anche l’abbandono da parte di Miroslav Vitous, evidentemente non del tutto coinvolto nella nuova direzione musicale voluta da Zawinul.

La sostituzione di Vitous con il più funky-oriented Alphonso Johnson determina quindi una svolta radicale e definitiva, la cui prima testimonianza è la pubblicazione di Tale Spinnin’, del 1975. Nello stesso anno Shorter realizza anche un progetto da titolare con l’uscita di Native Dancer, pregevole incursione nei territori della musica brasiliana, in compagnia del cantante Milton Nascimento.

La definitiva maturazione del nuovo corso si concreterà, con eccezionale forza espressiva, nel capolavoro Black Market (1976), che fin dalla esplicativa immagine di copertina afferma la provenienza planetaria del proprio mix di suoni e ritmi, geniale e mirabolante. La title-track rappresenta probabilmente un vero e proprio paradigma estetico, Gibraltar è esaltante nei compositi cambi di ritmo ed atmosfera e nel trascinante finale, ma al di là dei singoli episodi è il risultato complessivo a manifestarsi emblematico e fondamentale, snodo cruciale per molteplici tendenze musicali negli anni a seguire. Nell’occasione Shorter sperimenta, nella sua enigmatica Three Clowns, il Lexicon, antesignano dei sintetizzatori controllati da strumenti a fiato.

Sempre nello stesso anno, con il successivo Heavy Weather, i Weather Report licenziano il disco forse più noto e popolare dell’intero percorso artistico. Nel pluripremiato album, fortunatissimo anche da un punto di vista commerciale, spicca il funambolismo strumentale di Jaco Pastorius, figura cardine nell’evoluzione del bassismo elettrico contemporaneo, la cui straripante musicalità mette talvolta sullo sfondo gli iniziatori del gruppo. Entrato con spavalda autorevolezza, a sostituire Alphonso Johnson in due soli pezzi di Black Market, ben presto Jaco si afferma come “il più grande bassista elettrico del mondo” (parole sue, ma è difficile dargli torto).

Mentre la successiva incisione in studio, Mr. Gone (1978) già suscita le prime perplessità negli addetti ai lavori, in questo periodo la band è al massimo del fulgore nell’attività live; il magnifico affiatamento in proposito è testimoniato dallo spettacolare doppio 8:30 (1979), con i tre fenomeni coadiuvati alla batteria da Peter Erskine.

Il disco è una vera e propria summa dei momenti più felici della parabola artistica del gruppo, che continuerà ad incidere, con minore ispirazione e fortuna, fino al 1986, anno del definitivo scioglimento. I Weather Report consegnano alla storia musicale una ricca discografia (16 album), ma soprattutto un determinante impulso alla costruzione di un originale e genuino movimento fusion che, prendendo le mosse dal jazz, lo contamina con gli stilemi del rock, aprendo nel contempo anche la strada all’utilizzo strutturale di timbri e sonorità provenienti dalle più svariate culture musicali.

Per Wayne Shorter si avvia una lunga fase di stallo, dalla quale ricostruirà con fatica una rinnovata identità e vena creativa, attraverso una graduale serie di passaggi che porteranno alla formazione del Wayne Shorter Acoustic Quartet.

Wayne Shorter: Gli inizi – Il periodo Jazz Messengers (1959 – 1964)

La carriera professionale di Wayne Shorter inizia, all’età di 26 anni, con una breve permanenza nell’orchestra di Maynard Ferguson (luglio-agosto 1959). Nell’occasione, il sassofonista incontra per la prima volta Joe Zawinul, conoscenza che si rivelerà determinante in tempi successivi. Nell’ottobre del ’59, entra nei Jazz Messengers a rimpiazzare Hank Mobley, e gradualmente assume un ruolo sempre più importante all’interno dell’organico. Mettendo a frutto i quattro anni di studi musicali alla New York University, Wayne affina il naturale talento di arrangiatore, e nel contempo contribuisce alla formazione del ricco songbook del gruppo. Nella nutrita discografia realizzata con la formazione di Art Blakey, alcune delle incisioni rivestono particolare interesse, al fine di analizzare l’evoluzione del sassofonista nella triplice veste di strumentista, compositore  e capace organizzatore di suoni. The Big Beat, realizzato nel marzo 1960, presenta ben tre brani di Shorter su sei in programma. The Chess Players, caratterizzato da una scrittura piuttosto lineare, mette in mostra gli influssi di Sonny Rollins nell’approccio di Wayne al proprio assolo; ben più ardite sono invece Sakeena Vision’s, dedicato alla figlia del batterista leader, che sorprende per la raffinatezza dell’impasto timbrico e per la complessità del tema; e soprattutto Lester Left Town (omaggio al grande Lester Young), dove è evidente la ricerca dell’imprevedibile nell’eccentrica melodia, inizialmente discendente e quasi sospesa nel finale, e nelle sequenze di accordi utilizzate. Con un salto di due anni e mezzo, durante i quali la band produce, per la Blue Note, numerosi lavori molto apprezzati, si arriva all’ottobre ’62. I Jazz Messengers passano all’etichetta Riverside, e il primo album realizzato è Caravan. Due i brani del sassofonista: Sweet ‘n’ Sour, nel quale Wayne si cimenta, con mano assai felice, nel jazz valzer, fornendone un’intricata e personale interpretazione; e This Is For Albert, sentito omaggio al pianista Bud Powell, dove ancora una volta Shorter mostra una sistematica volontà di trovare soluzioni armoniche sempre nuove e inaspettate. Nel febbraio 1964, la compagine di Art Blakey torna ad incidere per la Blue Note, ed il risultato è l’eccellente ed energetico Free For All, considerato come uno dei dischi meglio riusciti per questa edizione dei Messengers. A distanza di pochi mesi, Freddie Hubbard abbandonerà il gruppo, e poco dopo anche Shorter chiuderà la felice esperienza, per aprire un nuovo, fecondissimo periodo, che durerà fino al 1970. In questi sei anni, prende corpo la sua attività di leader e, ugualmente esaltante, l’avventura al fianco di Miles Davis, in quintetto prima e in organici più ampi nell’ultima fase.

Alf